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“Un passo oltre”: l’impegno civico per la riabilitazione dei detenuti. Prospettive ed esperienze nell’incontro promosso dal Masci

 

Il tema del reinserimento sociale dei detenuti, raccontato attraverso diverse prospettive ed esperienze, è stato al centro della serata promossa dal Masci di Cremona nella serata di martedì 27 maggio all’oratorio di Cristo Re, a Cremona. Il terzo e ultimo incontro di un ciclo di conferenze sul tema “Vivere e pensare il carcere”. Il focus dell’ultima serata – dal titolo “Un passo oltre: l’impegno civico per la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti. Le misure alternative alla pena” – è stato il reinserimento dei detenuti, grazie agli spunti di riflessione offerti da Mara Sperati della Cooperativa Nazareth, agente di rete della casa circondariale di Cremona, Enzo Zerbini, della Cooperativa sociale Il Calabrone, e del direttore di Caritas Cremonese don Pierluigi Codazzi.

Mara Sperati ha messo in evidenza le difficoltà che i carcerati affrontano durante la loro detenzione, ma ancor più l’incertezza del momento del fine pena: «quel giorno in cui la persona sarà pronta, e qui occorre mettere un punto di domanda, per varcare il cancello del carcere e tornare alla vita normale. Ma quale vita? Spesso il pensiero che si ha da dentro è non più la vita di prima, ma quindi quale vita?». Sperati ha evidenziato l’importanza cruciale del reinserimento sociale e lavorativo per ridurre la recidiva, ma ha anche sottolineato che il lavoro da solo non basta senza un contesto di relazioni supportive e un cambiamento profondo nella persona, che può avvenire soltanto attraverso un percorso equilibrato, in cui casa e lavoro siano prerequisiti fondamentali, non obiettivi ultimi e unici.

I detenuti, infatti, soprattutto quelli di lungo corso, hanno sperimentato anni in cui qualcuno decideva per loro qualsiasi cosa, anche i gesti più semplici, come una visita dal dentista o una telefonata a un familiare. Una vita fatta di richieste di permesso, di lunghe attese, della speranza di poter ottenere in tempi brevi ciò che è più urgente, ma che comunque non dipende dalla propria volontà, ma dalla burocrazia carceraria e dalle proprie regole. Al momento della scarcerazione – ha evidenziato l’operatrice della Cooperativa Nazareth – devono riabituarsi a decidere, a scegliere, a occuparsi di se stessi, oltre che non ricadere negli stili di vita che li avevano portati a delinquere. Ed è per questo – ha detto Mara Sperati – che per fare reinserimento non basta il contributo delle cooperative e degli enti che lavorano in sinergia con le Istituzioni, ma «serve l’impegno di tutti: non solo chi di chi lavora in questo campo, ma anche della comunità», come a seguire ribadiranno anche Zerbini e Codazzi.

Toccante l’intervento di Enzo Zerbini, che con la moglie e i tre figli porta avanti l’esperienza della casa-famiglia “Madre Teresa di Calcutta”, attiva dal 1996 a Fiorenzuola d’Arda. Da allora in quella casa sono passate oltre 90 persone, tra le quali bambini in affido, ex detenuti,  tossicodipendenti, prostitute e altri soggetti fragili e bisognosi del calore e della sicurezza di una famiglia. «In casa sperimentiamo la ricchezza della complementarietà, delle differenze e tocchiamo con mano le problematiche, le difficoltà, i problemi del vissuto di queste persone. Li viviamo come una risorsa, come qualcosa da portare avanti in cui ognuno arricchisce l’altro. Attualmente siamo in 12, la più piccola ha 10 anni, la più grande è la nonna, che ne ha 87».

Un’esperienza che certamente non è all’altezza di tutti, ma che dimostra in modo lampante che i limiti e i freni sono dentro ciascuno di noi, non nelle persone che tutti possono aiutare e accogliere, anche solo per un po’ e non necessariamente in casa propria, ad esempio aiutando chi lo fa o mettendosi in gioco con tutta la propria comunità.

Zerbini ha raccontato molti episodi. Esperienze che non bisogna temere, perché in quasi 30 anni di attività il bene che la casa famiglia ha fatto supera di gran lunga qualsiasi delusione, fatica e sofferenza patita. «C’è un detto che dice: “Se senti il dolore sei vivo, se senti il dolore degli altri sei umano”. Ecco, io penso che il “confine” sia proprio qui, nel sentire il dolore dell’altro» e nel farlo proprio, adottandolo e facendo il possibile per curarlo.

Zerbini è anche presidente della Cooperativa Il Calabrone. Un’officina meccanica di precisione che a Cremona, sulla Castelleonese, ha fatto dell’inclusione il suo punto di forza, puntando sulla tecnologia e sull’innovazione. Un’esperienza di reinserimento lavorativo la cui missione non è quella di dare un’opportunità a chi ne ha bisogno, ma fare di persone con fragilità delle risorse fondamentali, che fanno crescere l’azienda e ne aumentano il valore. Quella che può sembrare una mera utopia in questa cooperativa diventa un modello.

«Credo che noi siamo chiamati a bilanciare e a generare uguaglianza. Questa è la nostra chiamata – ha sottolineato ancora Zerbini –. La cooperativa nasce per dare risposta agli adulti che sono in casa famiglia. Quando arriva un tossicodipendente, un detenuto o anche magari un ragazzo problematico, trovare lavoro è una cosa incredibile e fondamentale. Qualche mese fa ero in Piemonte a un convegno. In Piemonte ci sono 2.500 posti che le aziende dovrebbero destinare a persone svantaggiate e che invece sono vacanti, perché si preferisce pagare le multe. Capite? Questo è un problema culturale. Il primo problema è l’accoglienza, il secondo è quello del lavoro che ridà dignità, che aiuta la persona a trovare una la autonomia».

Per il reinserimento e mettere in campo misure alternative alla pena non basta l’impegno eccellente di alcuni. Lo ha sottolineato il direttore della Caritas diocesana, da sempre in prima linea su questo versante. Don Codazzi ha invitato ad «accogliere chi deve fare dei lavori socialmente utili e rimetterlo in gioco. Accogliere qualcuno per un periodo magari di qualche mese, in un appartamentino, per fare un percorso verso l’autonomia». «Potrebbe diventare concretamente il segno di una comunità intera che si mette in gioco rispetto al tema, molto più ampio e complesso della giustizia», se la comunità non si limita a mettere a disposizione una casa, ma accoglie davvero e cerca di fare vera inclusione.

Quando questo accade e le persone sono davvero reinserite e riabilitate, la percentuale di recidive crolla da tassi che sfiorano il 60-70% a mere eccezioni, che possono addirittura attestarsi poco oltre il 20%. Ecco perché, oltre alla leva dell’umanità, il senso di un impegno concreto da parte della società e delle sue comunità è anche quello di abbassare i rischi legati alla criminalità di ritorno, che rende l’esperienza carceraria inutile e meramente contenitiva e punitiva.