Ottobre missionario/3. Il vescovo Carmelo Scampa si racconta

In occasione dell’Ottobre Missionario, prosegue l’appuntamento settimanale proposto dall’Ufficio missionario diocesano per proporre la testimonianza di alcuni laici e sacerdoti originari della diocesi di Cremona che hanno deciso di dedicare la propria vita alla missione. Protagonista di questo terzo appuntamento è mons. Carmelo Scampa, originario di Scandolara Ripa d’Oglio, che partito come sacerdote fidei donum per il Brasile, dal 2003 al 2020 è stato vescovo di São Luís de Montes Belos. Recentemente è rientrato a vivere in Italia. Lo abbiamo intervistato.

 

Eccellenza, come è nata la sua vocazione missionaria?

«Per parlare della mia vocazione bisogna collocarla in un contesto ben preciso. Ho frequentato il Seminario di Cremona in anni molto significativi: il Concilio Vaticano II, con tutto ciò che rappresentava in termini di rinnovamento, speranze e prospettive future; e il clima di contestazione del 1968, che non toccava soltanto le grandi città italiane ed europee, ma anche la diocesi di Cremona, basti pensare a realtà come Caravaggio, Casalmaggiore, San Michele a Cremona. C’erano fermenti sociali e culturali che hanno risvegliato nuove istanze e sensibilità, influenzando profondamente anche le scelte vocazionali all’interno dei Seminari. Quello di Cremona era un ambiente piuttosto rigido: l’impostazione educativa, la disciplina e l’ecclesiologia erano fortemente strutturate e distanti rispetto ad altri contesti ecclesiali. Fin da seminarista, nonostante i frequenti richiami del vescovo Danio Bolognini, accompagnavo i gruppi di Mani Tese nel servizio caritativo a favore del Biafra (regione dell’attuale Nigeria teatro di una grave guerra civile e di una drammatica crisi umanitaria tra il 1967 e il 1970). Avevo persino avuto l’ardire, spinto dal desiderio di far conoscere l’America Latina, di fondare una piccola rivista, intitolata “Cremona Missionaria”, che però ebbe vita brevissima: furono pubblicati solo due numeri prima che il vescovo Bolognini ne decretasse la chiusura. Quell’iniziativa nasceva da un profondo slancio missionario che mi abitava interiormente. Attraverso il settimanale diocesano “La Vita Cattolica” conobbi mons. Chizzini, vescovo di Tocantinópolis, in Brasile, appartenente alla Congregazione orionina e originario di Casalsigone: cominciammo a scriverci e da quella corrispondenza nacque una relazione che coinvolse poi l’intera Diocesi di Cremona in un gemellaggio con la Diocesi brasiliana. Nel cuore portavo una domanda che era anche un appello: se nella nostra diocesi ci sono tanti seminaristi, perché qualcuno di noi non può mettersi al servizio di Chiese più povere e in maggiore difficoltà? Da questa riflessione nacque la decisione di trasferirmi a Verona, presso il neonato Seminario per l’America Latina. Il vescovo Bolognini, che guardava con diffidenza l’origine e l’impostazione di quel Seminario, insisteva affinché io entrassi in un istituto missionario già consolidato, come il Pime o i Saveriani. Sono entrato nel Seminario di Cremona a 12 anni, nel 1956, e nel 1967 sono passato al Seminario dell’America Latina per iniziare gli studi teologici».

 

Com’era il Seminario dell’America Latina?

«L’enciclica “Fidei Donum” di Pio XII, inizialmente rivolta all’Africa, e poi l’apertura all’America Latina voluta da Giovanni XXIII, regioni prive di clero locale, lanciarono l’appello perché le diocesi occidentali si rendessero disponibili a questa urgenza, in attesa di formare un clero nativo e rendere quei luoghi capaci di diventare autentiche Chiese locali. Il Seminario dell’America Latina nacque su iniziativa di mons. Carraro, vescovo di Verona. Era un Seminario pensato per l’Italia; poi ne sorse uno in Belgio e un altro in Spagna. Furono esperienze nate contemporaneamente, spinte da forti fermenti evangelici, vivaci e promettenti, ma che durarono poco. Intendevano preparare spiritualmente e umanamente i seminaristi destinati all’America Latina. Fu un’intuizione straordinaria per quegli anni. Ancora oggi si corre il pericolo di andare in un altro Paese, un altro continente, mantenendo però la mentalità del proprio ambiente, con il rischio di imporre il proprio stile, il proprio pensiero, il proprio modo di vivere. E questo provoca gravi danni ecclesiali».

 

Come sono stati gli anni della formazione a Verona?

«Gli anni della formazione a Verona, dal 1967 al 1971, sono stati i più belli e fruttuosi. Non saprei dire con esattezza perché scelsi proprio quel seminario e non il Pime o i Saveriani. Ebbe un peso rilevante una rivista cui era abbonato il nostro Circolo missionario “A. M. Ripari” del Seminario, intitolata “Seminario dell’America Latina”, pubblicata dai seminaristi di Verona, che offriva respiro in mezzo a una realtà seminaristica chiusa, rigida. Da quella rivista emergeva una visione di Chiesa e di mondo ampia, aperta, profonda, che a Cremona nemmeno immaginavamo. Era una visione di Chiesa liberante. Rimasi colpito dalla possibilità di restare prete diocesano, ma a servizio del Brasile. Questa forma di ministero mi ha conquistato».

 

Ha lasciato Cremona ma è rimasto forte il legame con la Chiesa cremonese…

«Non sono mai stato separato dalla Diocesi di Cremona: la mia ordinazione presbiterale, infatti, è avvenuta nella nostra splendida Cattedrale. Conservo una corrispondenza molto ricca con il vescovo Danio Bolognini: gli scrivevo spesso per aggiornarlo su ciò che vivevo, sulla formazione, sugli studi. Lo spirito di quel Seminario era chiaro: siete pienamente diocesani, ma fate questo percorso formativo affinché poi la vostra Chiesa vi invii, a suo nome, al servizio dell’America Latina».

 

Che Chiesa trovò al suo arrivo in Brasile?

«Nel seminario di Verona, spesso passavano in visita vescovi, teologi e missionari di ritorno dall’America Latina. Con i loro racconti ci aiutavano a comprendere la realtà vissuta in quei luoghi: ascoltarli ci permetteva di respirare da vicino le tensioni, le ingiustizie e le persecuzioni che affliggevano quei popoli. Tutto ciò alimentava in noi un desiderio profondo, quasi impaziente, di partire al più presto per portare il nostro contributo. Era una spinta interiore forte, un fuoco giovanile che ci animava. La Chiesa dell’America Latina, in quegli anni, viveva un periodo di straordinaria effervescenza, nel senso più pieno e autentico del termine. Era stretta nella morsa di situazioni sociali gravissime. Quando arrivai, il Brasile si trovava sotto una dura dittatura militare, instaurata con il colpo di stato del 1964. Il contesto sociale brasiliano di allora era profondamente diverso da quello odierno: la povertà era estrema, dilagante. Quando arrivai in Brasile, il 23 luglio 1977, ad accogliermi a Rio de Janeiro trovai il vescovo e insieme percorremmo più di tremila chilometri in autobus per raggiungere Tocantinópolis. Quel viaggio fu per me uno shock: lungo il tragitto rimasi colpito nel vedere che molte abitazioni erano ancora costruite con fango e paglia, prive di elettricità e acqua corrente, infestate dai topi e con servizi igienici all’esterno. Durante la stagione delle piogge, che durava sei mesi, l’assenza di strade asfaltate isolava completamente i villaggi. La popolazione soffriva enormemente per i conflitti tra i fazendeiros (grandi proprietari terrieri) e i piccoli coltivatori. Il clima di terrore per il diritto alla terra – cioè il riconoscimento legale della proprietà a chi la lavora – era soffocante. Era una Chiesa stretta tra la povertà estrema e la repressione politica, eppure viva. Una Chiesa che, pur priva di mezzi e materiali pastorali adeguati, si rivelava autenticamente evangelica. La mia prima parrocchia, a Tocantinópolis, comprendeva ben diciotto comunità sparse su un territorio vastissimo. Era una realtà povera, sì, ma colma di spirito missionario: una Chiesa che davvero traboccava di evangelizzazione».

 

Quali erano le tensioni principali all’interno della Chiesa nei suoi primi anni di missione?

«Già in quegli anni era evidente una frattura – oggi ancor più marcata – tra chi desiderava una Chiesa centrata sui sacramenti e chi, invece, la sognava profetica, capace di liberare. Con il tempo questa contrapposizione si è fatta più ideologica. Al mio arrivo la tensione era palpabile. La maggior parte dei sacerdoti era italiana (i preti locali erano soltanto tre) e gli italiani, e ancor più i polacchi, avevano una visione della Chiesa piuttosto ristretta, tradizionalista. Tuttavia, la vera ricchezza era rappresentata da un laicato sveglio, vigile, capace di custodire la fede nonostante le risorse limitate. Una delle forze trainanti fu la centralità della Parola, vissuta attraverso le piccole comunità di base: gruppi locali che si riunivano per leggere e meditare il Vangelo, condividendo esperienze di fede e vita quotidiana. Lo studio della Scrittura, il confronto costante con il Vangelo, avvenivano con tutti: anche con persone semplici, povere, talvolta analfabete. Questo ha dato vigore e profondità alla vita cristiana, pur in mezzo a sfide già allora significative, come la diffusione del protestantesimo, lo spiritismo, la macumba… tutte espressioni sincretistiche tipiche della religiosità brasiliana. Non a caso i primi martiri della Chiesa brasiliana sono stati laici: uomini e donne del popolo che hanno dato la vita per difendere la fede e la giustizia sociale. Sono stati loro a tenere vivo il fuoco del Vangelo. Più una Chiesa è perseguitata, più riscopre la propria essenza e va all’essenziale. Oggi, purtroppo, molto di tutto questo è andato perduto».

 

Quali sono stati i tratti dell’inizio del suo ministero in terra brasiliana?

«I miei primi ventun anni a Tocantinópolis sono stati una vera e propria formazione universitaria: su che cosa significhi essere prete, su come vivere la Chiesa e su come dialogare con fedi diverse. È stata un’esperienza che mi ha arricchito profondamente. Il seminario dell’America Latina aveva avuto il grande merito di prepararci all’ascolto, al confronto e alla capacità di rispettare i tempi della crescita interiore. Ogni persona riceve un seme diverso, che matura in modi e momenti differenti. Ho imparato la sapienza di attendere i processi. Se vai in missione pensando di dover impiantare un modello, colonizzare, replicare ciò che fai in patria, sei fuori strada. In America Latina c’è un modo di essere Chiesa completamente diverso dal nostro, ma profondamente valido. In tutto questo, un aiuto prezioso è stato Padre Joachim, il sacerdote – purtroppo scomparso prematuramente – che avevo conosciuto già nel primo Seminario della diocesi brasiliana dove operavo: fu lui ad aiutarmi a comprendere le diversità che spesso mi sfuggivano. Mi ha insegnato a essere in Brasile non come italiano, ma come brasiliano».

 

Come descriverebbe l’evoluzione della Chiesa brasiliana negli ultimi anni, alla luce della sua esperienza personale e pastorale?

«Il volto attuale della Chiesa brasiliana è mutato profondamente. È una comunità meno profetica, più incline a valorizzare chi possiede. In passato, la Chiesa brasiliana investiva nelle pastorali – modalità concrete e dinamiche per accompagnare le persone nei vari percorsi ecclesiali – oggi, invece, si dà maggiore spazio ai movimenti: strumenti validi per risvegliare una fede assopita, ma che, senza un accompagnamento concreto, formativo e continuativo, finiscono per spegnersi rapidamente. Quando mi riferisco ai movimenti, penso in particolare ai gruppi carismatici, cresciuti in modo esponenziale. Molti vi si avvicinano spinti dalla ricerca del milagros, il miracolo. Come slancio iniziale, questi movimenti sono certamente positivi – non così dissimili, in fondo, dai gruppi neo-pentecostali – tuttavia, a mio avviso, la Chiesa brasiliana di oggi è come assopita, procede con le gomme sgonfie, con fatica. E i problemi sono estremamente gravi. La situazione sociale, rispetto al passato, non è migliorata significativamente. Anzi, sono emerse nuove forme di povertà, devastanti, come quelle legate al narcotraffico. Nella mia diocesi, a São Luís de Montes Belos, undici anni fa avevamo fortemente voluto – e realizzato – una casa per chi usciva dal tunnel della tossicodipendenza: oggi quella struttura non è tra le priorità diocesane. Quando la Chiesa cammina al fianco della borghesia, tutto diventa possibile! A differenza di quando sono partito, ora vedo una comunità ecclesiale che non mi affascina più come un tempo, quando si percepiva chiaramente che la passione per il Vangelo era la ragione di essere e di restare lì. Si era lì per il Vangelo! E non si temevano le conseguenze. Quel fervore, quell’entusiasmo, sembrano svaniti. Durante l’ultima fase della mia permanenza in Brasile, nel ruolo di vescovo emerito, collaboravo con padre Joachim nella sua parrocchia. Ricordo con stima il modo in cui curava la pastorale del lutto: era vicino a chi aveva un familiare in fin di vita, vegliava accanto a quelle famiglie, trascorreva con loro le notti: quell’accompagnamento era un vero balsamo per chi soffriva; le persone apprezzavano profondamente la vicinanza concreta della Chiesa nei momenti di dolore. Oggi, invece, molti sacerdoti sono impegnati quasi esclusivamente nell’organizzazione di incontri carismatici, che somigliano a fuochi d’artificio: spettacolari all’inizio, ma privi di solidità nel cammino».

 

Dopo molti anni di missione in Brasile, come sta vivendo il rientro in Italia?

«Devo confessare che il mio corpo è qui, ma il cuore resta in Brasile. In quanto vescovo emerito, conservo profondi legami spirituali e affettivi con quella Chiesa che ho servito per quasi tutta la vita. La mia firma – vescovo emerito di São Luís – continua a interrogarmi. Tuttavia, è giusto che io sia qui per permettere a chi ha intrapreso un nuovo percorso pastorale di essere libero di agire secondo coscienza, senza condizionamenti. Conservo nel cuore la gioia di aver dedicato tante energie alla realtà del Seminario: prima a Tocantinópolis, come rettore, poi a São Luís, come pastore di quella diocesi. Ho visto una trentina di giovani intraprendere la via del sacerdozio. Se da giovane sono partito perché là vi era bisogno urgente di sacerdoti, ora sono rientrato in Italia con la soddisfazione di aver contribuito alla nascita di vocazioni autoctone. È stata un’esperienza vocazionale intensa, che ha dato frutti. Insieme, abbiamo donato tutto: tempo, forze, passione. L’urgenza più pressante era proprio quella delle vocazioni».

 

Che Chiesa ha ritrovato in Italia?

«Devo riconoscere che, tornando in Italia dopo tanti anni, è cambiato quasi tutto. Sul piano culturale faccio fatica a comprendere alcuni atteggiamenti, soprattutto di carattere etico e politico: alcune visioni della vita mi appaiono estranee. Spesso, osservando certi comportamenti o ascoltando determinati discorsi, mi chiedo: tutto questo che risonanza può avere con il Vangelo? Anche sul versante ecclesiale noto un cambiamento profondo. Sono partito negli anni ’70, lasciando una Chiesa con un clero abbondante. Ora mi ritrovo con unità pastorali dove un solo sacerdote si trova a guidare più parrocchie. Il rischio è che il prete venga sovraccaricato e oppresso da troppi compiti e preoccupazioni, mentre i laici restano ai margini, talvolta per mancanza di iniziativa, altre volte per assenza di spazio. Sono convinto che i sacerdoti “fidei donum” avrebbero potuto offrire un contributo prezioso, concreto e non solo teorico, alla riforma della struttura parrocchiale. La mia prima parrocchia copriva una superficie di 6mila chilometri quadrati – tre volte la diocesi di Cremona – e la gestivo da solo. Eppure, già allora ogni comunità aveva i propri ministeri: catechesi, liturgia, carità… con formatori capaci, affinché ciascuna realtà potesse vivere appieno la propria missione. Il ruolo dei laici era riconosciuto e valorizzato, e il sacerdote poteva essere davvero un animatore della comunità. Ora sono a disposizione di ciò che mi viene richiesto. Ho prestato qualche servizio occasionale nelle parrocchie e quest’anno predicherò i ritiri al clero della zona IV della diocesi. Ma faccio fatica a ritrovare il mio posto: non so né dove né come inserirmi in un contesto così profondamente trasformato. Intercedo nella preghiera, e sicuramente questo porterà tanto bene alla Chiesa».

 

 

Biografia e attività pastorale di mons. Scampa

Mons. Carmelo Scampa è nato a Scandolara Ripa d’Oglio (CR) il 27 gennaio 1944. Ordinato presbitero il 27 giugno 1971 è stato vicario a San Bernardo in città e poi a San Daniele Po. Nel 1977 è partito come missionario CEIAL per il Brasile dove è rimasto fino al 1989 quando è rientrato in diocesi per assumere l’incarico di parroco di Villarocca e direttore del Centro diocesano vocazioni.

Nel 1990 è tornato in Brasile come sacerdote “fidei donum” ricoprendo incarichi sempre più prestigiosi, tra i quali quello di Segretario della Conferenza episcopale del Centro-Ovest.

Eletto vescovo di Saõ Luis de Montes Belos (Brasile) il 30 ottobre 2002 è stato ordinato il 5 gennaio 2003. Alla liturgia prese parte anche mons. Lafranconi insieme a una nutrita delegazione cremonese. Questa Chiesa conta quasi 300mila abitanti (di cui oltre il 70% battezzati) sparsi su un territorio di oltre 42.500 chilometri quadrati.

Dom Scampa, grazie agli aiuti della Chiesa Italiana, nel 2004 ha costruito il Seminario minore e nel 2006 quello maggiore.

Negli anni l’impegno del Vescovo d’origini cremonesi è stato anche per la formazione dei laici, in modo particolare dei catechisti, al fine di contrastare l’opera di proselitismo di predicatori pseudo-evangelici che illudono le persone anche con il miraggio di aiuti materiali.

Altro fronte d’impegno quello per il contrasto della piaga della droga: nelle due visite pastorali svolte negli anni, in tutte le parrocchie è emersa una grande preoccupazione per il problema della tossicodipendenza. Allora è maturata l’idea di edificare una casa di recupero per offrire una nuova prospettiva di vita a chi dipende da queste sostanze. Così la diocesi di São Luís de Montes Belos ha acquistato, a circa 20 km da São Luís, un’azienda agricola di oltre 33 ettari per permettere agli ospiti di provvedere autonomamente al proprio sostentamento. Proprio per aiutare a sostenere questa spesa è venuto in aiuto la generosità dei cremonesi con l’Avvento di Fraternità 2011. Il cantiere della struttura è stato visitato dal vescovo Dante Lafranconi, durante la sua permanenza a São Luís, prima della Gmg di Rio de Janeiro, nel luglio 2013. La casa di recupero – inaugurata ufficialmente nel settembre 2014 – è stata voluta come segno concreto della preoccupazione della Diocesi verso il problema della droga in un particolare anniversario: i cinquant’anni della fondazione della diocesi.

 

 

 

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