Il vescovo: «Segni della missione sono presenti nella vita di ciascuno: piccole scintille da non sottovalutare»
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Nella serata di sabato 18 ottobre la comunità diocesana si è ritrovata nella chiesa dell’Immacolata Concezione, nel quartiere Maristella di Cremona, per la veglia missionaria guidata dal vescovo Antonio Napolioni. L’appuntamento, preparato dall’Ufficio missionario diocesano, si è rivelato un’intensa esperienza di ascolto, condivisione e testimonianza, vissuta nel segno della speranza. Più di un centinaio i partecipanti, a conferma di come il desiderio di riscoprire la missione come vocazione per tutti i battezzati sia ancora vivo e generativo.
Nel cuore della serata è risuonata una certezza condivisa: Gesù è l’unica speranza per tutte le genti e il Vangelo, grazie all’impegno e alla testimonianza di tanti, continuerà a essere annunciato con forza alle generazioni future.
Quattro giovani, con il cuore ancora colmo delle esperienze vissute in terra di missione, hanno offerto testimonianze semplici ma cariche di verità. Nonostante l’emozione palpabile, le loro parole hanno raggiunto con forza la comunità raccolta in ascolto.
Ha aperto la serie degli interventi Valeria: «La speranza in Camerun non è una parola astratta: è concreta! Io l’ho vista negli occhi di un catechista, occhi amorevoli che guardano ogni bambino del villaggio». E ha continuato: «In quei giorni ho capito che la speranza non è aspettare che le cose cambino: è credere che il bene, anche se piccolo, può fare la differenza».
Parole che restituiscono la profondità di un’esperienza – quella vissuta nella missione delle Suore Adoratrici – che non è stata da spettatrice, ma come parte di una comunità capace di sperare attraverso piccoli gesti, quotidiani, silenziosi, eppure decisivi.
Cecilia ha preso la parola subito dopo: «Sperare per me è un atto di fede, di coraggio. Questo me l’hanno testimoniato molto bene gli amici camerunensi, perché nonostante l’essenzialità delle loro condizioni di vita: devono andare a procurarsi l’acqua alla fonte, sono senza elettricità. Ci hanno dimostrato una generosità fuori dal comune». Nelle sue parole si è colta tutta la forza della testimonianza che nasce dal contatto diretto con chi vive la semplicità come scelta obbligata, ma che proprio da lì attinge una forza spirituale disarmante.
Poi è stato il momento di Yodit, giovane della parrocchia di Ossolaro, che con altre cinque ragazze ha vissuto l’estate in Brasile, presso la parrocchia di Salvador de Bahia dove sono presenti i fidei donum cremonesi don Davide Ferretti e Gloria Manfredini. «Tutto quanto abbiamo fatto la scorsa estate è stato donare il nostro tempo – ha precisato –. Don Davide ci ripeteva che stare con le persone era la cosa più importante della nostra esperienza. Ciascuna di noi, in ambienti diversi della parrocchia, ha potuto e voluto fare questo. Per me la speranza è accorgermi che questa esperienza mi ha cambiata. Questo viaggio mi ha messo nel cuore il desiderio profondo di continuare a mettermi a disposizione degli altri». Una testimonianza che ha reso evidente come la missione non sia un’esperienza da archiviare, ma un seme che continua a crescere, generando nuove disponibilità e nuove aperture al servizio.
Infine ha preso la parola Eric, giovane ivoriano, con una testimonianza forte e personale, che ha raccontato la sua rinascita interiore: «Come tutti i giovani della mia età ho iniziato vivere e fare ciò che potete immaginare: sigarette, alcool, droga e tanto altro… Dopo tre anni tutto iniziò a crollare, tutto si faceva difficile, mi sentivo perso. Allora mi sono ricordato di Dio e ho cambiato vita. Ora sono qui a lodarlo». Eric ha portato la testimonianza di una fede ritrovata che salva, che rialza, che rimette in cammino. Un vero canto alla speranza che vince la notte dell’anima.
Particolarmente toccante è stata la partecipazione alla serata della comunità cristiana della Costa d’Avorio, che ha animato la veglia con canti e danze. L’entusiasmo traboccante, carico di fede, ha contagiato tutti i presenti. Accanto al gruppo di Cremona anche fedeli da Parma, Reggio Emilia e Verona: un segno eloquente di come la fraternità non conosca confini geografici quando è radicata nel Vangelo.
La riflessione del vescovo Antonio Napolioni ha offerto a tutti i presenti un prezioso sguardo di sintesi e di profezia. Il vescovo ha intrecciato l’ascolto della realtà alla luce della Parola, richiamando tutti alla vocazione missionaria del popolo di Dio. Anzitutto invitando a riconoscere i «segni della missione» presenti nella vita di ciascuno, piccole scintille da non sottovalutare: «Chissà quante tracce di missione ci sono nella vita di ciascuno di noi. Quante immagini, quante scintille, quanti messaggi ci manda il Signore».
Partendo da una notizia di cronaca, monsignor Napolioni ha poi fatto riferimento agli occhi dei bambini di Gaza, tornati a scuola dopo anni di guerra. «Gli occhi dei bambini sono la prima chiamata a riconoscere il dovere della missione».
Poi il riferimento alle testimonianze ascoltate poco prima dai giovani presenti, evidenziando come il cuore dei giovani sia un altro segno potente che Dio offre alla Chiesa: «I bambini e i giovani non sono ancora rassegnati al pessimismo, al cinismo, e hanno il diritto di sognare un futuro degno di bellezza e di condivisione, un futuro di pace, di giustizia». Ma per dare concretezza a questi sogni è necessaria la disponibilità degli adulti a mettersi in cammino: «Ci vogliono i piedi degli adulti. Dove stiamo andando noi adulti? Stiamo andando incontro alle altre generazioni, agli altri popoli, alle altre famiglie, alle altre culture?»
Il vescovo ha evocato anche l’immagine della Chiesa sognata da papa Francesco: «Una Chiesa in uscita, fatta di discepoli missionari, che offre la vita in mezzo alle genti». E ha aggiunto con forza: «Non basta essere religiosi. Non basta essere praticanti. Non funziona dirci solo cattolici. Essere cristiani ci deve costare, perché solo se ci costa vale». Infine il richiamo alla necessità di non rimanere fermi nella nostalgia del passato, ma di allenarci ogni giorno a una partenza nuova: «Un tempo la veglia missionaria era popolatissima perché partivano dei preti per terre lontane. Alleniamoci giorno per giorno a un’altra partenza, al metterci in moto qui. E non facciamoci prendere dalla paura».
A sigillo della serata, il canto “Vivre d’amour”, intonato da don Didier, sacerdote ivoriano in servizio nella diocesi di Reggio Emilia, ha accompagnato i presenti in un momento di raccoglimento profondo a partire da una poesia di santa Teresa di Lisieux, patrona delle missioni, che racchiude tutta la sua dottrina sull’amore di Dio: un amore che si fa dono totale, vita spesa per il bene degli altri.
La veglia si è conclusa con i cuori colmi di gratitudine e una rinnovata consapevolezza: la missione non è un altrove geografico, ma un atteggiamento del cuore. È lo stile di chi sceglie di vivere nella logica del Vangelo, ovunque si trovi.