Don Ezio Bellini: «Per me “missione” è andare dentro i popoli, in mezzo ai popoli»

Intervista al sacerdote di Villacampagna rientrato dal Brasile dopo otto anni di servizio a Mogi das Cruzes
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Ha fatto rientro in Italia, dopo otto anni di missione a Mogi das Cruzes, in Brasile, don Ezio Bellini (in foto accanto al vescovo Napolioni, durante la sua visita in Brasile nel luglio 2017). Il sacerdote classe 1946, originario di Villacampagna, laureato in Teologia e licenziato in Filosofia, aveva iniziato il proprio ministero come vicario a Soncino e Soresina, partendo poi per il Brasile nel 1986. Dopo ventotto anni di servizio come “fidei donum”, nel 2004 era rientrato in Italia svolgendo per alcuni, nei quali è stato insegnante in Seminario e ha collaborato con le parrocchie di Soncino e Ticengo. Sino al 2013, quando era ripartito per il Brasile, dove è stato vicerettore dell’Istituto Paolo VI, l’università filosofico-teologica della diocesi di Mogi das Cruzes, collegata alla Facoltà teologica di S. Paolo, oltre che viceparroco della Cattedrale di Mogi.

Don Ezio, lei negli ultimi anni ha prestato servizio a Mogi das Cruzes, ci parli di questa realtà.

«Mogi das Cruzes è localizzata nella grande periferia di San Paolo. Data l’espansione demografica della metropoli, la città si è spostata, in seguito alle continue migrazioni interne, a Mogi. Si trova a 40 km da San Paolo e si può dire che è il suo orto. Il commercio di verdure, ma anche le industrie tecniche e quelle siderurgiche, mantiene e fa crescere il popolo di Mogi».

Qual è la più grande differenza tra la comunità cristiana cremonese e quella di Mogi?

«Fare comparazioni è sempre difficile, ma posso dire, in generale, che le comunità del Brasile sono affettive, vivono la vita partendo dall’emozione, dal suono. Là le celebrazioni sono ritmiche e vivaci: impressionano sempre l’occhio del visitatore europeo. Ed è proprio l’opposto della situazione europea: se in Europa prevale la razionalità, in Brasile la fanno da padroni le immagini e i suoni».

Che cosa significa per lei la parola “missione”?

«Come tutte le altre parole ha una sua storia. L’Eucaristia era detta in latino Missae, perché era celebrata e continuava ad essere celebrata nell’andare. Ecco, per me “missione” è andare. Dove? Dentro i popoli, in mezzo ai popoli».

Che cosa le ha lasciato l’esperienza della missione?

«Sono stato impressionato dal movimento. In Europa abbiamo una parola che ci protegge molto: io. Un’isola impenetrabile cui tutto gira intorno. In Brasile invece esiste il tu. Il Brasile ha causato in me un movimento che ha permesso al mio “io” di divenire “tu”».

Cosa si sente di dire a chi oggi o domani parte per la missione?

«I grandi filosofi hanno passato gli anni a chiedersi che cosa fosse l’essere. A me ha sempre colpito Plotino, che invece si chiedeva: perché l’uno? Quindi io consiglio una cosa sola: in un mondo globalizzato come quello attuale, dobbiamo iniziare a capire che siamo di tutti e siamo fatti di tutti».