Prosegue l’appuntamento settimanale, in occasione dell’Ottobre Missionario, proposto dall’Ufficio missionario diocesano per proporre la testimonianza di alcuni laici e sacerdoti originari della diocesi di Cremona e in servizio all’estero. Protagonista di questo secondo appuntamento è Monica Corna, classe 1969, originaria di Brignano Gera d’Adda (Bg), che che da più di vent’anni opera a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, per una Ong legata ai Salesiani – VIS (Volontariato internazionale per lo sviluppo).
Monica, com’è nata la sua vocazione missionaria?
«Sono l’ultima di tredici fratelli e provengo da una famiglia contadina molto semplice. Mia madre, originaria della Val Brembana, era una donna profondamente religiosa. Mio padre, invece, veniva dalla pianura e faceva il mediatore di animali di grossa taglia. Anche se era credente, aveva un atteggiamento piuttosto critico verso l’istituzione Chiesa. Era un antifascista convinto, un uomo controcorrente, un resistente che non si piegava facilmente alle regole imposte dal sistema. Fin da ragazza ho avuto un forte legame con la natura, un amore grande per gli animali che mi ha spinta a intraprendere gli studi di medicina veterinaria. Tuttavia, non li ho portati a termine perché sono stata attratta dal mondo del sociale: così ho iniziato a lavorare come educatrice, dedicandomi in particolare a bambini e minori con situazioni familiari difficili. Uno dei miei fratelli, padre Tobia Corna, è stato missionario Saveriano. È venuto a mancare il 31 dicembre 1999, dopo aver svolto servizio missionario in America Latina e in Africa. La dimensione missionaria, in un certo senso, è sempre stata parte della mia storia familiare e personale. Così, col tempo, in me è cresciuto un desiderio profondo: partire per terre lontane, vivere quell’esperienza in prima persona».
Quando la partenza per la missione?
«Dopo la morte di mio fratello Tobia, ho sentito il bisogno di andare in Messico, insieme a mia madre, per incontrare la comunità in cui lui aveva vissuto e operato. Quel viaggio è stato un punto di svolta: ha reso il mio desiderio missionario ancora più forte, ancora più reale. Poco tempo dopo, la cognata di un mio collega mi disse che sarebbe partita per Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, e stava cercando qualcuno con cui condividere quei mesi di servizio. Non ci ho pensato due volte: in brevissimo tempo ho dato la mia disponibilità. Da quel viaggio è cominciato tutto».
Come è stata questa prima esperienza nella Repubblica Democratica del Congo?
«Partimmo con una organizzazione laica legata ai Salesiani di Don Bosco e da allora sono sempre rimasta legata a loro, mettendomi al servizio delle loro opere. Il mio punto di contatto e di inizio con questa organizzazione è stato don Ferdinando Colombo, sacerdote salesiano, che ha insegnato anche nella Scuola Salesiana di Treviglio; una figura splendida: con il suo carisma aveva già fondato associazioni come “Amici del Ruanda” e “Amici dei Popoli”. Il suo entusiasmo mi ha contagiata. Era il giorno di Pasqua e, senza esserci mai incontrati, mi ha chiamata al telefono e mi ha chiesto cosa volessi fare: io ho dato la mia disponibilità per un’esperienza di pochi mesi. Lui ha risposto dicendomi di aver bisogno di me almeno per due anni. Io dopo appena due ore di riflessione, ho preso la decisione che ha cambiato per sempre la mia vita. E così sono partita per l’Africa: una prima volta nel 2002 per un mese, e poi, a gennaio 2003 ho iniziato quell’esperienza che mi vede ancora oggi impegnata sul campo».
Quali sono i compiti che ha volto e che svolge ora?
«In un primo momento ho prestato servizio presso un Centro salesiano, occupandomi di tutto: della cucina alla salute dei bambini, dal riordino dei container alle pulizie. Insomma, in quanto volontaria, mi sono resa disponibile per tutto ciò che si rendeva necessario. Ho lavorato molto, fin dal primo giorno in cui sono arrivata qui a Goma. Questa comunità salesiana accoglieva, e accoglie tutt’ora, minori di ogni tipo: bambini di strada, orfani, piccoli abbandonati o malati offrendo loro ogni tipo di servizio, dall’accoglienza, al cibo, alle cure mediche e alla scuola. Ho vissuto con loro per sedici anni. Con il tempo, l’organizzazione con la quale sono partita è stata riconosciuta officialmente in loco come Ong e, pur mantenendo lo stesso spirito di servizio, il mio ruolo ha assunto anche una dimensione amministrativa e gestionale. Oggi gran parte del mio impegno è dedicato alla stesura di progetti finalizzati a sostenere le opere salesiane. Naturalmente, l’esperienza vissuta accanto ai più piccoli è stata fondamentale per il mio attuale lavoro: avendo toccato con mano la realtà di fragilità e povertà, posso ora strutturare con maggiore consapevolezza e concretezza progetti che siano davvero a favore dei più bisognosi».
Com’è la situazione nella Repubblica Democratica del Congo?
«Nei vent’anni che ho trascorso qui ho visto davvero di tutto. Tranne l’eruzione vulcanica del 2012, che mi ho seguito dall’Italia, ho vissuto ogni tragedia insieme a questa gente. Ho attraversato momenti di conflitto armato nel 2007, nel 2012 e ancora oggi, da gennaio 2025. È toccante vedere come, se da un lato la mortalità causata dalla guerra resta altissima, dall’altro la natalità è ancora più elevata; in Italia, al contrario, il benessere materiale ha portato a una denatalità impressionante. Vivo da vent’anni accanto a una popolazione che ha sempre dovuto rialzarsi. I conflitti, alimentati da milizie esterne, nascono dalla corsa alle risorse naturali del sottosuolo: questa è una terra ricchissima che fa gola a molti; le bande armate, sostenute da paesi limitrofi e anche da potenze dell’Occidente, hanno seminato terrore per anni. Nei momenti di tregua, la gente tenta sempre di ripartire, ma poco dopo la violenza distrugge tutto di nuovo. A tutto questo si aggiungono epidemie ricorrenti – ebola, covid, vaiolo delle scimmie – e malattie come la malaria e il morbillo e calamità naturali: eruzioni a Goma, inondazioni a Bukavu e Kinshasa. Eppure, nonostante tutto, questa popolazione ha una forza straordinaria. Ho visto bambini in condizioni disumane di malnutrizione tornare a vivere e sorridere in pochissimo tempo, con il giusto aiuto. Questo è il vero miracolo: un popolo ferito – tra i primi al mondo per numero di stupri sulle donne, spesse volte ancora bambine – che riesce sempre a ricominciare, a riprendersi la propria vita con dignità. Ho visto persone capaci, dopo orrori indicibili, di ritrovare la gioia di vivere. È questa la lezione più grande che ho ricevuto».
A suo giudizio, com’è la fede di questo popolo?
«Tra i Paesi dell’Africa, questa è senza dubbio una delle zone più cattoliche. La loro è una fede profondamente diversa dalla nostra. Noi, attraverso percorsi culturali e storici articolati, siamo diventati molto più riflessivi e talvolta critici nei confronti di immagini e credenze tradizionali. Qui, invece, la fede è spesso incondizionata: se qualcosa viene affermato da un rappresentante di una Chiesa o da un predicatore di una qualsiasi confessione religiosa, non viene messa in discussione. La scarsità di risorse scolastiche e di stimoli culturali rende difficile porsi interrogativi. È anche per questo che proliferano le sette, che promettono cambiamenti miracolosi nella vita delle persone in cambio di preghiere incessanti e generose offerte. La fede cattolica, al contrario, insiste sulla responsabilità personale, sull’impegno concreto del singolo e della comunità per migliorare la propria esistenza e trasformare la società. Qui la Chiesa non fa leva sul ricatto né impone nulla: non pretende nulla in cambio. I bambini che frequentano le scuole dei salesiani, ad esempio, non sono tutti cattolici. Se, nel loro percorso educativo e formativo, maturano il desiderio di approfondire la fede e ricevere i sacramenti, sono liberi di farlo. Ma nessuno li forza».
E la sua fede, com’è?
«Il mio cammino di fede è stato tutt’altro che lineare. In gioventù ho attraversato fasi in cui mi dichiaravo atea e contestavo apertamente molte posizioni ecclesiali. Eppure mio fratello padre Tobia e l’ambiente cattolico che frequentavo mi hanno accolta per quella che ero, riconoscendo la mia interiorità e il mio modo personale di credere, pur non essendo una praticante assidua. Ancora oggi, i salesiani con cui vivo continuano a rispettare e sostenere questo mio percorso».
C’è qualche episodio o avvenimento che, in questi vent’anni in Africa, l’ha particolarmente segnata?
«Le esperienze che mi hanno toccato profondamente in questi anni sono davvero tante, ma ce ne sono due che mi hanno toccata in modo particolare. La prima riguarda la consapevolezza che non possiamo fare tutto né salvare tutti, anche se nel profondo del cuore lo desidereremmo: ho imparato che è sufficiente salvare anche una sola vita, aiutare una sola persona, per cambiare il mondo intero. A volte, il male che si incontra qui è talmente grande e potente che ci si sente disarmati. La seconda riguarda la bellezza della diversità: l’uniformità non porta mai ricchezza. Conoscere e accogliere le abitudini, i modi di vivere degli altri, apre alla possibilità di cambiamento, permette di scoprire il bene e il bello presenti in ogni cultura. Io ho imparato moltissimo da loro, ma anche loro hanno imparato qualcosa da me, dal mio modo di essere».
Ha qualche suggerimento da dare alla Chiesa cremonese, in modo particolare ai giovani?
«Ai giovani delle nostre comunità italiane vorrei dire di prestare attenzione a ciò che li circonda. In Occidente siamo spesso immersi in una realtà artificiale, basata in gran parte sull’apparenza. Non bisogna mai smettere di impegnarsi, di faticare per gli altri. Anche se la paura di perdere qualcosa di comodo può essere forte, dedicarsi agli altri non è mai una perdita, ma un guadagno. L’idea che gli stranieri vengano in Italia a rubarci il lavoro è una falsità: se fossimo più generosi e aperti, ci sarebbe spazio e lavoro per tutti. I nostri Paesi hanno bisogno di giovani con entusiasmo, capaci di offrire nuove prospettive di vita. I giovani di queste terre, toccati da immani sofferenze, hanno tanto da donare alla nostra Europa stanca e opulenta».