Tag Archives: Chiesa di casa 2021/22

image_pdfimage_print

Chiesa di Casa, l’abbraccio alle famiglie nell’ultima puntata della stagione

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

ƒ. Ci credono con forza i coniugi Maria Grazia e Roberto Dainesi, incaricati diocesani per la Pastorale familiare. Una famiglia che ha bisogno di altre famiglie. In altre parole del respiro di una comunità, che a sua volta ha la responsabilità di «intravedere nelle famiglie i segni della presenza del Signore». Ne è convinto don Enrico Trevisi, coordinatore dell’area pastorale «Famiglia di famiglie», che insieme ai coniugi Dainesi è stato ospite questa settimana di Chiesa di casa, il talk di approfondimento pastorale della Diocesi di Cremona, che nell’ultima puntata della stagione non poteva che cogliere spunto dall’incontro mondiale delle famiglie. Continue reading »

“Chiesa di casa”: per una comunicazione “in uscita” ​​​​​​​oltre il metro dei “like”

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

«Noi abbiamo l’idea che il giornalista sia colui che ci racconta al telegiornale cosa è successo nella giornata» spiega Gamba. Si tratta, invece, di «ricostruire attraverso l’ascolto degli altri quella che i giornalisti solitamente chiamano la “sostanziale verità dei fatti”». Questo uno degli spunti proposti da Maria Chiara Gamba, corrispondente da Cremona per Avvenire, ospite della puntata di questa settimana di «Chiesa di casa». Con lei, in dialogo con l’incaricato diocesano per le comunicazioni sociali Riccardo Mancabelli, il collega Filippo Gilardi, giornalista coordinatore redazionale di Tele radio Cremona Cittanova, editrice che gestisce e cura i media diocesani che richiama la «capacità di incontrare gli altri e di non essere autoreferenziali – e aggiunge – Credo che questo sia un rischio da scongiurare. Viviamo un tempo, l’epoca della comunicazione, in cui è essenziale mettersi nei panni di chi riceve il messaggio, capire il linguaggio di chi ascolta per potersi proporre in modo efficace e significativo».

Dunque, occorre un adeguamento, anche perché, come spiega la corrispondente di Avvenire: «Siamo immersi in un fiume di comunicazione». I ragazzi, oggi, intendono la comunicazione «come un mettere in comune senza filtri le loro esperienze all’istante». In questo senso, continua il collega: «Un rischio della comunicazione “adulta” è quello di voler costringere dentro sistemi o linguaggi che ci sembra siano tipici del mondo giovanile i nostri soliti contenuti. È molto importante, per questa velocità di adattamento, che i giovani abbiano spazio creativo per imprimere il loro stile alla comunicazione». Ed è forse proprio perché il nostro tempo esige notizie sempre meno superficiali e accumulate, che bisogna ricordare, come dice Maria Chiara, che «fare il giornalista vuol dire cercare più fonti, più punti di vista per completare il fatto».

A tal proposito, risultano evidenti dei punti di lavoro, due in particolare, secondo Filippo Gilardi: «Il primo è quello di uscire dalla logica dello “scoop”: non conta più tanto arrivare prima, ma arrivare bene sulla notizia; l’altro aspetto è quello di uscire dalla logica del consenso, che è la logica tipica della nostra società, quella del “like”, che ci imprigiona in questa necessità di avere approvazione». Piuttosto, riflette Maria Chiara Gamba riprendendo alcuni passaggi del Messaggio del papa per la Giornata, si tratta di «partire dall’idea di considerare l’altro come portatore di bellezza e mistero». Per accorgersi di ciò, «bisogna predisporsi in quell’atteggiamento di ricerca di novità, bellezza, mistero che tutte le persone che incontriamo, ci possono offrire».

La posizione del giornalista, ma anche dell’educatore, quindi, è quella di chi si mette in discussione, per capire che l’altro è «un mondo da scoprire». Quindi, la comunicazione, in particolar modo quella cristiana, deve ambire a un percorso di conoscenza, conoscenza di quel Mistero che sta alla radice dei fatti, delle persone incontrate.

Chiesa di Casa si è infine conclusa con le parole di Filippo Gilardi, che rimarcano la grande sfida di «misurarsi con la società, con la cultura, con le persone». La proposta, però, interpella non solo i giornalisti, ma anzitutto la Chiesa e i cristiani di oggi.

Caravaggio si prepara alla festa dell’apparizione: ecco perché ci mettiamo in cammino

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

Questa settimana, in vista dell’anniversario dell’Apparizione di Maria a Caravaggio, l’appuntamento di Chiesa di Casa, rubrica diocesana di approfondimento pastorale, approfondisce proprio la realtà del Santuario di Santa Maria del Fonte con due ospiti che la vivono quotidianità.

«Lamentiamo, in questi tempi, una Chiesa che si sta svuotando, che sembra essere abbandonata o, perlomeno, “poco interessante”, però ci si ritrova, poi, in un luogo come questo, dove la gente arriva e questo colpisce». Don Ottorino Baronio è uno dei sacerdoti che presta il suo servizio al Santuario di Caravaggio. È questo il luogo verso cui «la gente si mette in movimento – aggiunge – viene, non solo dai territori più vicini, ma anche da molto lontano».

E il mese di maggio è certamente il periodo più vivo per la devozione mariana che a Santa Maria del Fonte chiama alla preghiera migliaia di pellegrini ogni settimana da ogni parte del nord Italia. È però anche il mese in cui la Chiesa cremonese torna alla casa della sua co-patrona con l’affetto e la solennità del 26 maggio, il giorno in cui la diocesi fa memoria del l’apparizione della Vergine a Giannetta.

Dallo stupore di questo continuo ritorno e di questo incessante cammino di popolo verso il Caravaggio, però, sorge spontanea una domanda: come mai? Cosa attrae i pellegrini a questa meta? Secondo suor Paola Rizzi, delle Adoratrici del Ss. Sacramento di Rivolta d’Adda, che insieme ad alcune sorelle opera proprio al Santuario dove contribuisce alla animazione dell’accoglienza presso Casa di Maria, le motivazioni di un tale movimento possono essere di due tipi: «Il bisogno che la gente oggi avverte di muoversi, di andare fuori, e poi il desiderio di rimettersi in cammino per ritrovare un senso nella vita». Da un lato, quindi, un «bisogno quasi fisico» di uscire, non solo di casa, ma anche da sé e dalle proprie abitudini e «dalle proprie chiusure»; dall’altro lato, l’esigenza di «ridarsi risposte profonde, motivazioni radicali». A questo bisogno risponde con il Santuario, che è luogo di preghiera e spiritualità e anche occasione d’incontro, quindi di pace. Qui – aggiunge don Baronio – «quando tu incontri delle persone, nasce qualcosa che non è programmato»; a prevalere non è uno schema, ma un incontro da cui, poi «nasce tutto il resto». Tutto il resto è la conseguenza di quell’incontro.

Perciò, giungendo al santuario, i pellegrini sono sostenuti dalla «certezza che lì incontreranno l’abbraccio di una Madre: “vengo a trovare la Madonnina” dicono» e di questo abbraccio i sacerdoti si fanno tramite, in particolare quando sono coinvolti nel sacramento della penitenza. Per il prete che accoglie i pellegrini, la priorità è, infatti, l’ascolto: «Ti rendi conto sempre di più – spiega il sacerdote cremonese – che la gente ha bisogno di ascolto. Io sto facendo proprio questa esperienza forte che un po’ mi fa mettere in discussione, anche nel mio servire la Chiesa, cioè nel mio ministero: da quando sono a Caravaggio ho tolto l’orologio! Perché l’ascolto, qui, è senza tempo». E senza l’incombere delle cose da fare che mettono fretta e tolgono profondità alle relazioni, la gente «apre il cuore», «si cammina insieme e si costruisce una relazione che non è programmata: questo è un volto di Chiesa che mi sta interrogando molto e credo sia oggi molto importante». Con lo stesso sguardo lieto anche suor Paola racconta la propria esperienza a Santa Maria del Fonte: «Soprattutto per noi suore Adoratrici, il primo compito qui al santuario non è fare qualcosa ma è pregare per le centinaia, migliaia di persone che passano». Questo avviene attraverso la proposta di momenti di spiritualità e adorazione. Momenti preziosi in cui, secondo suor Paola, «la gente sta riscoprendo il gusto di incontrare Dio attraverso l’ascolto della sua Parola e credo che questo aiuti molto il passaggio da una fede devozionale a una fede esistenziale».

Lo sperimentano quotidianamente sacerdoti e religiose che vivono e operano a Caravaggio: i fedeli, da soli o in gruppo, non arrivano al fonte solo per chiedere, ma anche per ringraziare. Nelle differenze di storia e di condizioni, i pellegrini sono tutti accomunati da questa sete di «fede esistenziale», tuttavia sempre connotati da un analogo atteggiamento di figli che suor Paola Rizzi descrive con un’immagine semplice e forte: «Quando un bambino va dalla mamma sa perché ci va, ma soprattutto sa per chi ci va: va da lei perché è la mamma e questo ti basta».

È questo, «l’amore per questa grande Madre», il motivo che, nel giorno della memoria delle apparizioni come in ogni momento dell’anno, spinge a mettersi in cammino.

La voce delle comunità, consegnato a Roma il documento di sintesi del Sinodo (video e download)

È stato inviato a Roma il documento di sintesi del cammino diocesano vissuto nei mesi scorsi nell’ambito del Sinodo sulla sinodalità, indetto da Papa Francesco per approfondire i lineamenti della Chiesa di oggi, in tutte le realtà, e leggerli nella cornice del cambiamento epocale in atto nella società. Un cammino di comunione, partecipazione e missione – come ricorda lo slogan del Sinodo 2021-2023 – che ha coinvolto l’intera Chiesa universale e dunque anche la diocesi di Cremona. Continue reading »

A Chiesa di casa sotto la lente la tutela dei minori

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

Chiesa di Casa guarda questa settimana alla tutela dei minori. Per questo, in dialogo con Riccardo Mancabelli, in studio, è intervenuto l’incaricato diocesano per la tutela dei minori don Antonio Facchinetti, con in collegamento, invece, Silvia Corbari, a cui è stata affidata la gestione del Centro di Ascolto.

Don Antonio ha anzitutto spiegato la natura di questo servizio, che prende le mosse da un desiderio di Papa Francesco che «parte dal desiderio non solo di cucire le ferite, ma anche di prevenire i limiti umani, soprattutto nel campo della custodia dei minori o delle persone che sono in qualche modo svantaggiate, perché non custodite nella loro maturità». Desiderio, prima di tutto, di una presa di coscienza: «Far sì che tutta la Chiesa si renda conto delle malvagità che possono essere state commesse all’interno della Chiesa».

Oltre al servizio nato a livello nazionale, ce n’è uno regionale e anche diocesano, come specifica don Facchinetti: «Si è cercato di costituire dei servizi centrali che a loro volta potessero avvalersi di servizi diocesani o inter-diocesani, guardando a due versanti: quella che è la registrazione delle segnalazioni, sia per la cura di chi è stato vittima sia per tenere presente le persone che hanno sbagliato e che hanno bisogno di un riscatto; l’altro campo è il discorso della prevenzione e della promozione di una educazione sana a tutti i livelli».

Cura e prevenzione, quindi, sono gli obiettivi pratici di questa proposta, obiettivi che si fanno “luogo” proprio nel Centro di Ascolto, di cui Silvia Corbari ha spiegato le caratteristiche principali: «Si accoglie sia chi vuole raccontare, sia chi vuole denunciare o esprimere la propria difficoltà. Il compito del centro di ascolto è proprio quello di accogliere, ascoltare ed eventualmente anche di orientare riguardo i passaggi ulteriori». Questo centro si avvale di strumenti che garantiscono comunque la riservatezza e l’anonimato e che portano poi verso il momento effettivo dell’ascolto, cioè un appuntamento.

Sotto la lente non ci sono solo gli abusi che fanno più rumore nella cronaca, ma anche quelli “di coscienza”.

Attualmente «viviamo un momento di relativa calma: non ci sono segnalazioni drammatiche o inquietanti. Questo, però, non ci deve lasciare tranquilli perché noi dobbiamo vigliare», conferma don Facchinetti.

Il tema, quindi, si intreccia fortemente con quello educativo: «Riuscire ad accrescere non solo le competenze, ma anche proprio l’approccio nel sentirsi educatori all’interno di una comunità, a prescindere dal ruolo che si va a svolgere credo che sia la base per un’attenzione che è fatta di rispetto e accoglienza. Stiamo anche camminando come Chiesa, come sinodo, per riprendere l’abitudine al fare insieme, al confrontarsi».

In conclusione, quindi, si è osservato come la tematica educativa sia il primo passaggio per una consapevolezza e una crescita sana e «imbevuta di fede».

A Chiesa di casa l’esperienza dei catecumeni che nella veglia di Pasqua riceveranno i Sacramenti

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

Questa settimana la rubrica Chiesa di Casa volge lo sguardo alla veglia di Pasqua, nella quale il vescovo Antonio Napolioni, in Cattedrale, conferirà i sacramenti dell’Iniziazione cristiana ad alcuni catecumeni. È proprio il Catecumenato il tema affrontato nel dialogo fra Riccardo Mancabelli e l’ospite in studio: don Luigi Donati Fogliazza, incaricato diocesano per il Catecumenato. In collegamento i coniugi Emanuela e Alberto Gavazzi, coppia di Cassano d’Adda che accompagna uno di questi catecumeni.

«Il Catecumenato ha una storia antica – spiega don Donati Fogliazza –. È l’esperienza che la Chiesa si è data, soprattutto nei primi secoli, per accompagnare coloro che chiedevano il Battesimo». Un’esperienza, dunque, «di conoscenza progressiva del Signore e della Chiesa e, quindi, di avvicinamento ai sacramenti».

Ma anche percorso con tappe predefinite, seppur con tempi in qualche modo personalizzati: «Anzitutto l’Iscrizione, quando il catecumeno – continua il sacerdote – entra formalmente in questo percorso; quindi si formalizza la richiesta ai sacramenti e l’accoglienza della comunità; poi ulteriori passaggi – scrutini – scandiscono il tempo quaresmale, fino alla celebrazione dei sacramenti nella veglia Pasquale».

Sono i coniugi Gavazzi a dare una testimonianza concreta della loro esperienza con i catecumeni: «Nel 2019 avevamo già accompagnato una ragazza che ci era stata affidata alcuni anni fa: aveva 15 anni, era liberiana e noi abbiamo “cucito” su di lei un programma di preparazione. Un cammino che era durato tre anni. Poi, ci è stata affidata quest’altra ragazza», dice Emanuela. E continua Alberto: «Adesso con noi abbiamo Regina, che è albanese e ha 32 anni; abbiamo incominciato il percorso ormai da due anni e mezzo, quindi ci siamo riuniti quindicinalmente con lei a casa nostra, per arrivare alle celebrazioni che hanno coinvolto anche la nostra comunità di San Zeno».

Appartenenza alla comunità che, insieme alla domanda di senso, sembra essere denominatore comune delle diversificate esperienze di catecumenato: «Il bello del Catecumenato – racconta l’incaricato diocesano – è che ogni storia è a sé: c’è chi viene da un contesto più cristiano, c’è qualcuno che viene da contesti totalmente diversi. Quello che li accomuna è la necessità di dare un senso alla propria esistenza». E prosegue: «La seconda cosa che mi colpisce è il desiderio dei catecumeni di essere in comunità, cioè manifestano fortissimo il desiderio di conoscere il Signore, ma con la comunità». Per questo, come spiega don Luigi «l’esperienza del Catecumenato ci dice che la Parola del Vangelo non smette di chiamare e, anzi, che il Vangelo chiama ciascuno di noi in un momento preciso della vita, in modalità specifiche. Noi siamo abituati a percorsi “di massa”, ma il Catecumenato ci dà un altro volto della Chiesa, che è proprio quello di una vocazione personale a seguire il Signore».

Quindi, è evidente che per la comunità il Catecumeno è valore aggiunto, come dice Alberto: «Sicuramente abbiamo visto che lo Spirito Santo soffia dove e come vuole… quando vuole! E abbiamo notato tutti l’entusiasmo della nostra catecumena». Entusiasmo che non lascia indifferenti, per la sua evidenza: «Noi siamo stati come “energizzati”: le esperienze con queste due ragazze ci hanno rigenerato e ci hanno aiutato a riscoprire la ricchezza dell’essere cristiani».

Nell’esperienza di arricchimento reciproco, per il catecumeno essere accompagnato è fondamentale: «In fondo, questo è quello che succede quando si nasce: c’è qualcuno che ci conduce mano a mano a entrare nelle esperienze della vita. È il volto di una Chiesa che si prende cura di te», dice don Luigi Donati Fogliazza. Che aggiunge come anche la scelta del luogo della Cattedrale non sia dettata dal caso: «Ci sono motivi profondi, anche legati alla figura del Vescovo, proprio come successore degli Apostoli: la fede che i catecumeni esprimono, e che noi tutti saremo chiamati a esprimere nella veglia Pasquale, è la fede che si fonda sulla trasmissione della fede apostolica. Poi, c’è una dimensione comunitaria forte che la cattedrale e il vescovo esprimono».

Il cammino, certo, non si esaurisce con la veglia di Pasqua. Anzi, come dichiara Alberto ricordando l’esperienza della prima catecumena accompagnata: «Ricina si è sempre affidata a noi: ha voluto sempre tenere questo collegamento con noi e con tutte quelle persone che ha incontrato durante il percorso». Uno cammino, quello del Catecumenato, che per i coniugi Gavazzi porta il neofito a diventare veramente testimone del Vangelo.

Percorsi di preparazione al matrimonio: camminando insieme verso il «sì»

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

A pochi giorni dall’incontro diocesano tra il Vescovo e i giovani che hanno partecipato ai corsi in preparazione a matrimonio, «Chiesa di casa» ha dedicato proprio a questo tema il suo approfondimento settimanale. Ospiti in studio i coniugi Betti e Giuseppe Ruggeri, che da anni seguono questo percorso con il ruolo di coppia guida e in collegamento Chiara e Fabio Accardo, una coppia di giovani sposi.

«Per il corso di preparazione al matrimonio – ha spiegato Giuseppe – c’è una equipe di sposi, due o tre coppie, più un sacerdote. Si articola in nove incontri, più uno con il vescovo che si tiene in primavera tutti gli anni. Si fa una riflessione su temi che comprendono dall’amore umano fino al matrimonio. Sono incontri che tengono conto anche di rischi e fatiche molto concrete all’interno del matrimonio, però alla luce del Vangelo». A questo corso partecipano, secondo quanto riferisce Betti «ormai quasi tutte coppie già conviventi, un po’ per “obbligo”, un po’ per scelta. Al massimo su dodici coppie circa ce ne sono una o due che non convivono. E poi sono abbastanza avanti in età – e aggiunge – È bello, però, capire quello che ha portato le coppie a sposarsi in Chiesa: la convivenza non gli basta, ma hanno bisogno di una “definitività” diversa, un di più». A tal proposito, è fresca la testimonianza di Chiara e Fabio: «Per noi è stato un cammino di fede, non solo di coppia, – dice Chiara – è un percorso che serve, perché alla fine non si ritorna come prima: si sono incontrate delle persone, cioè anche punti di vista nuovi. A noi è capitato affrontare discorsi che tra di noi non erano venuti fuori». Anche Fabio ha sottolineato la portata di questa esperienza per lui: «L’abbiamo sentita come esigenza di formazione. Ne avevamo bisogno e ci ha arricchito tanto». L’arricchimento, però, non è solo per i fidanzati: «La preparazione di questi incontri – afferma Betti – è sempre nuova. In équipe ci si incontra sempre per confrontarsi prima e, nonostante più o meno la scaletta sia sempre quella, i fidanzati sono diversi». Dunque, sempre un elemento di novità, anche per chi guida gli incontri da circa venticinque anni: «Le relazioni che si creano sono arricchenti, anche per noi – aggiunge Giuseppe – noi andiamo sempre preparandoci e riscopriamo le radici di ciò che ci ha unisce. Qui si comprende quanto è bello questo sentimento quando si apre a Dio». Il metodo utilizzato, poi, come specifica Betti: «Non è quello della lezione frontale, ma quello di far mettere in gioco le coppie. All’inizio facciamo fare un momento di confronto interno alla coppia e poi tutte le coppie mettono in comune le riflessioni. Noi ne facciamo una sintesi».  Un metodo che pare efficace soprattutto perché prevede la testimonianza vivente di altre coppie. Così, Chiara racconta: «La nostra aspettativa era alta. Non siamo stati delusi, anche perché Betti e Giuseppe sono stati da esempio, anche dalle parole che uscivano dalla loro bocca». Fabio aggiunge: «Ci hanno proprio resi partecipi. Ci siamo riscoperti e abbiamo riscoperto altre persone. È stato un interagire molto arricchente». Incontri con chi è in cammino da tempo, ma anche con chi è lì per le stesse esigenze e domande: «All’inizio magari c’è un po’ di diffidenza, ma poi si crea una comunione» dice Betti.

Infine, la trasmissione si è conclusa con l’augurio delle coppie di essere segno della presenza di Dio nel loro Amore, quindi Parola viva, ma anche di non fermarsi mai in questo cammino di cui il corso è solo un piccolo tassello.

Case e ospedali come locande del buon samaritano

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

In occasione della Giornata mondiale del malato, la rubrica Chiesa di Casa ha visto la partecipazione di don Maurizio Lucioni, l’incaricato diocesano per la Pastorale della salute, oltre che coordinatore dell’Area pastorale “Con lo stile del Servizio”, che svolge anche l’incarico di assistente spirituale all’Ospedale di Cremona. Il dialogo in studio, guidato da Riccardo Mancabelli e che ha coinvolto anche la presidente dell’Amci (Associazione medici cattolici italiani) di Cremona, ha voluto individuare il senso di questa Giornata, dal titolo “Siate misericordiosi come il Padre Vostro è misericordioso”.

Giornata di cui quest’anno ricorrono i trent’anni dall’istituzione, voluta da Papa Giovanni Paolo II «per sensibilizzare il popolo di Dio e le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche, e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi». «Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di questa attenzione – ha affermato don Lucini – per andare incontro a tutti i nostri fratelli sofferenti: non solo quelli presenti negli istituti, nelle rsa o nelle cliniche, ma anche quelli che sono nelle case».

Giornata del malato che arriva a pochi giorni di distanza dalla Giornata per la vita (sul tema “Custodire ogni vita”): «una coincidenza voluta e provvidenziale nello stesso tempo», ha detto il sacerdote, sottolineando la linea che unisce l’inizio della vita e la sua fragilità. «Solo pochi giorni fa – ha quindi ricordato – il Papa ha ribadito che ogni vita va custodita, sempre! È la risposta alla logica dello scarto». E ancora: «È proprio nelle situazioni di estrema fragilità che il nostro ascolto si fa accompagnamento e aiuto, necessari a ritrovare ragioni di vita. Riprendo ancora le parole del Papa: dobbiamo accogliere la morte, non darla!».

La dottoresa Rosalia Dellanoce, geriatra che lavora presso l’istituto Vismara De Petri di San Bassano, ha quindi portato la propria testimonianza di professionista, ma anche medico cristiano. Un tema, quello della misericordia, che ogni giorno si declina nel suo lavoro: «Il nostro lavoro – ha spiegato – è proprio quello di custodire vite fragili: quando ci viene affidato un nuovo ospite, noi cerchiamo subito di stabilire una relazione attraverso la sua famiglia». Secondo la presidentessa dell’Amci di Cremona, è dalla relazione che nasce la cura: «C’è una frase che ricorre spesso e che sempre mi colpisce; i familiari ci dicono: “Adesso è nelle vostre mani”. È una frase che emoziona tantissimo perché da una parte si vede tutto l’amore che c’è dietro e dall’altra la responsabilità che ci è affidata e che accogliamo con un certo timore di non essere all’altezza». Una responsabilità che riguarda anche la famiglia del malato: «La famiglia non delega tutto a noi: c’è una parte che rimane fondamentale nella presenza delle persone care con cui un anziano o un malato ha condiviso le tappe della sua vita». Sottolineando il verbo «custodire», la dottoressa Dellanoce ha spiegato che questo tipo di approccio «implica la capacità di riconoscere la preziosità di quanto ci viene affidato».

Una posizione che si allinea a quanto detto dal Papa: «Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia».

Durante la trasmissione, con il ricordo andato a quanti vivono momenti di sofferenza nelle case o nei luoghi di cura, si è parlato anche delle “locande del buon samaritano” (come le definisce il Papa nel messaggio per questa Giornata) in cui malati di ogni genere possono essere accolti e curati. «In ogni casa in cui ci si prende cura di un ammalato o di un anziano si opera questa compassione, questa misericordia. Si potrebbe dire: è ovvio che sia così! Ma non è affatto così scontato. Però è anche vero che nelle nostre comunità c’è tanto Vangelo! Magari ancora nascosto e non così visibile, perché non finisce sui giornali. Davvero ci sono tante locande della misericordia di Dio: ad esempio le rsa o le cliniche in cui ci sono operatori che svolgono il proprio servizio non semplicemente per portare a casa lo stipendio, ma come vocazione. Anche se magari non sono cristiani praticanti. L’ho sperimentato tante volte».

Don Lucini ha ricordato anche l’importanza del “ministero della consolazione”, che «esiste già da anni e timidamente nasce qua e là, anche se non è ancora entrato a pieno nell’azione pastorale della Chiesa. Questo però non vuol dire che i tanti cristiani che sono nelle nostre comunità non operino e non compiano questo servizio. Il ministro della consolazione, però, non è tanto uno che fa, o che pronuncia parole consolatorie, piuttosto dice una presenza. È una persona che si pone in ascolto delle tante fragilità che possono essere presenti nel suo territorio, ma nello stesso tempo è anche il promotore, all’interno delle comunità, di questo tipo di servizio. Il ministero della consolazione non è da delegare a qualche esperto: lo fa a nome della comunità e, contemporaneamente, ricorda a tutti gli altri cristiani il loro il loro impegno».

La dottoressa Dellanoce ha infine ricordato come quello che diversifica i medici credenti, i medici cattolici, è lo stile del servizio, in nome di una scelta di vita e di una scelta religiosa: si tratta di incarnare nella professione quelli che sono i valori del Vangelo, che sono valori talmente belli e talmente universali che li ritroviamo anche in persone e in colleghi completamente laici». In mezzo a «situazioni che ogni giorno ti interrogano», come ha aggiunto la dottoressa, si va incontro a una «bellezza molto particolare» che sostiene nel contatto quotidiano con il dolore e con la malattia; una circostanza che –assicura la dottoressa Dellanoce – facilita «l’ascolto del Vangelo, perché le persone, con i loro comportamenti, ti parlano, incarnando valori grandissimi». Un lavoro, quindi, impegnativo, ma sostenuto da una vocazione all’incontro e all’ascolto dell’altro che arricchisce «in una maniera che non avresti pensato».

«Una vita consacrata al Vangelo significa una vita a servizio di Dio, della Chiesa e degli uomini». A Chiesa di Casa, la testimonianza di due religiosi

 

Il prossimo 2 febbraio si celebrerà la giornata mondiale della vita consacrata. Ed è proprio questo il tema della nuova puntata di Chiesa di Casa, rubrica che accoglie, questa settimana, la presenza in studio di Andrea Cassinelli, frate Minore Cappuccino del convento di via Brescia, a Cremona, e, in collegamento, di suor Valentina Campana, dell’Istituto delle Suore Adoratrici del SS. Sacramento di Rivolta d’Adda.

Continue reading »